I Diari delle Motociclette. 3. PPPB. Algeria 1987. Sahara e Dakar!

I Diari delle Motociclette. 3. PPPB. Algeria 1987. Sahara e Dakar!
Piero Batini
  • di Piero Batini
Tocca a me. Non più ai “domiciliari”, continuo a frugare in garage, nei cassetti, vecchi scatoloni in soffitta. Salta fuori qualcosa. Le dia, le carte, il taccuino di un viaggio. Algeria. 1987. Incrocio le gambe, comincio a leggere, mi catapulto indietro nel tempo. E i Vostri Diari? Andiamo!
  • Piero Batini
  • di Piero Batini
8 giugno 2020

Il Viaggio è un simbolo di libertà che non ha uguali. Può sganciarsi completamente da ogni vincolo, unire spensieratezza e immaginazione. Volo libero tra una partenza e il ritorno, il viaggio annida un anelito di frequenza che batte più forte del cuore. Non è mai una ripetizione. È sempre e per sempre un’esperienza nuova, originale, inedita.

Il Viaggio che vi voglio raccontare si basa su uno che l’ha preceduto e ne è una sorta di evoluzione. Una volta compiuto, si sgancerà definitivamente dal suo ispiratore ed entrambi vivranno la loro memoria di esperienza indipendente.

Ecco le pagine ingiallite del diario di un viaggio in Moto attraverso il Deserto algerino. Raggiungeremo Djanet, Tamanrasset. Il Tassili, l’Hoggar. Incroceremo la Dakar in un punto del Sahara. Poi torneremo a casa.

I viaggatori sono Piero Palla, il sottoscritto di me medesimo, e altri a sorpresa che incontriamo lungo la strada.

 

Giorno “Zero”. 26 Dicembre 1986. Il giorno zero è quando hai staccato il cordone ombelicale. Quel giorno coincide con l’inizio della traversata del Mediterraneo a bordo della Habib, nave-relitto leggendaria che per decenni ha collegato Genova a Tunisi. Poi è stata sostituita con un nuovo battello che, astutamente, porta lo stesso nome. In questo modo i nuovi viaggiatori possono evocare il vecchio terrore. Qui si parla della vecchia Habib. Per non consumare neanche un micron delle Desert nuove fiammanti a Genova siamo arrivati con le Moto sul carrello. Quel carrello incatenato fuori dalla zona del porto in attesa del nostro ritorno è il distacco del cordone. È un giorno subito dopo Natale, stagione ideale per due giorni di Libeccio. Ci azzecchiamo, e ne siamo certi quando alla sera, ancora ridossati alle nostre Isole, ci offrono una cena-banchetto da prima classe. Nessuno mangerà più per un giorno e mezzo. La nave è sicura ma non si fa una grande pubblicità. Rinchiusi in cabina, ci teniamo alla cuccetta con tutte le nostre forze. Ad ogni passaggio sull’onda l’ammaraggio nel suo incavo è di una violenza inaudita. La nave non si spezza in due ma siamo disintegrati dal mal di mare. Il pensiero va alle Moto nella stiva. Saranno legate bene per superare il fortunale?

 

Antefatto. Nove mesi prima il viaggio è deciso, e in due settimane ci sono le linee guida. ”Equipaggio”, fattibilità economica, un po’ di logistica e l’itinerario di massima. Poi la Moto e la sua preparazione. Ero tornato da poco dal viaggio con Roby ed ero già con un piede in quello successivo. Cambieranno alcune cose. L’equipaggio. Due amiconi in quel periodo cointeressati alle ragazze di una stessa famiglia, quindi doppiamente apparentati. Lo stesso nome, Piero, per un tocco thriller. La Moto. Ero andato con una BMW, una R80 G/S Paris-Dakar (sì, quella con la firma di Gaston Rahier sul serbatoio) uscita dal contagocce della prima partita. Bellissima, indimenticabile, ma ci voleva qualcosa di più. Un purosangue. Era l’epoca in cui dilagavano le grosse “mono”, anche alla Dakar. Scegliamo due Yamaha TT600 gemelle. Stupende. Le compriamo a distanza di qualche settimana dallo stesso Conforti di Livorno e, dopo un rodaggio da psicanalisi, per battezzarle le affidiamo al nostro idolo e Campione toscano di Enduro, improvvisamente senza moto alla vigilia della prova cruciale. Infatti ce le riporterà abbondantemente limate, non dalla gara che ha vinto ma dal rovesciamento del carrello in autostrada.

La preparazione. Nove mesi di passione. Sono tempi possibili. Io trovo un kit Belgarda Dakar, nuovo di zecca, a pochi dollari. Forse non così pochi, ma ci sono momenti in cui il denaro è davvero vile. Serbatoio Acerbis da 40 litri, cassa filtro incorporata, marmitta Lafranconi, piastre, collettori. Anche una sella più corta che faccio imbottire più alta. Tutto ufficiale, accessori per il montaggio e filtro aria della Panda inclusi. Piero trova lo stesso kit serbatoio, usato una volta, e comprerà uno scarico Arrow a parte. Nonostante la supervisione tecnica di Maurizio Foresi, amico, ex pilota e meccanico bolognese tra-piantato a Portoferraio, le “filosofie” divergono. Piero avvia una sordida relazione con il fabbro dell’Elba e salda tutto al telaio, piastre, rinforzi, un portapacchi che sembra una gabbia anti-squalo. Sul telaio della mia Moto, invece, non un solo punto di saldatura. Bulloni e dadi, stop. Ho studiato un sistema per i supporti del serbatoio di cui vado orgoglioso. Saldo due mezzi tubi al ponticello d’acciaio su cui poggia il serbatoio, così da fissarlo al telaio con una serie di robuste fascette elettriche. In caso di caduta tuttalpiù il sistema si sgancia, ma non si rompe nulla. Funzioneranno entrambi i sistemi, ma Piero avrà un breve flirt con un saldatore algerino. Manubri Tomaselli indistruttibili, paracoppe Zaccaria, serbatoi acqua Acerbis, due denti di più al pignone, corona d’acciaio e una Regina Extra che probabilmente gira ancora, molle rinforzate e taratura della forcella (per l’extra peso benzina). La Lafranconi “racing only” viene parzialmente addomesticata con un silenziatore tipo arma da fuoco. Un semplice tubo traforato che, all’occorrenza, si toglie e diventa l’altra gamba della stampella laterale. Ce lo sconsigliano, ma non tocchiamo i motori, 6 volts e canna cromata, come i fucili. Cura maniacale nei montaggi, raddoppio di filtri e protezioni, non passerà un granello di sabbia. Dividiamo una grande fiducia e pochi ricambi. 5 litri extra di benzina a testa, maglia catena, io una centralina, lui una bobina, camere d’aria, le leve e le... leve per i copertoni, la pompa della BMW da strada. Tutto perfettamente inutile, due orologi… giapponesi. Di omologato, da Acerbis, solo lo specchietto retro per controllare che il socio di turno sia ancora dietro.

 

La dotazione. Piero è più tecnico e elegante, veste MRobert, io sembro un qualsiasi signor… Batini. Cerata da barca vissuta, calda, comoda e imbottita, jeans di grammatura con una tasca artigianale per ospitare le ginocchiere. Entrambi: stivali da moto top, un buon casco jet (“Tanto farà un caldo…!), guanti da moto, buoni, marsupio, lo zainetto Invicta. Guardaroba zero e poche cose, essenziali. Una tendina d’alta quota, un gioiello da pochi grammi quasi invisibile, sacco a pelo da K2 d'inverno e materassino. Per l’acqua adottiamo un sistema di contenitori medici da mezzo litro, collassabili, che riempiamo di volta in volta e che riponiamo ovunque, anche in tasca. Piero, che è medico, ha preparato un kit di pronto soccorso che Rambo si metterebbe a piangere dall’invidia. Le immagini. Io ho con me una Minox 35 GT, un capolavoro di miniatura e qualità tedesca dei tempi delle pellicole. Ne ho avute altre, sempre con me, una mi è scivolata dalla tasca nella baia di Portofino con le foto della regata vittoriosa. Piero mi ha regalato la sua, ancora nuova, qualche mese fa. Abbiamo con noi la prima telecamera Sony Video 8. Appena uscita. Renderà l’anima al dio di Hollywood dopo pochi giorni. L’abbiamo smontata con il coltellino svizzero, ma solo per renderci conto che una molla di mezzo centimetro si era spezzata. Irrimediabile. Nelle sacche a lato delle Moto abbiamo anche un po’ di cibo d’emergenza, roba da astronauti: liofilizzati, latte in polvere, omogeneizzati. Non è ancora l’epoca che senza integratori e barrette sei un uomo morto. La moto carica è ancora riconoscibile e leggera, e in ogni caso la grande differenza la farà… il pieno.

Giorno 1. 26 Dicembre. In realtà un giorno e mezzo, tanto dura il supplizio Habib. Il caos totale del porto di Tunisi, carte, controlli, discussioni e vaffanculi in tutte le lingue, è accolto come un gioioso ritorno alla vita. Ci resta mezza giornata per guadagnare l’Ovest tunisino. Via! È la parte più “stradale” del viaggio, ma completa la “liberazione” ed è pura felicità. Hammamet, Enfida, Kairouan, Gafsa. Chilometri facili, 450 fino a Tozeur. Ci fermiamo all’oasi, inutile arrivare alla frontiera di notte e aspettare lì la mattina. E poi l’oasi è un rito di passaggio. Ci infiliamo con le moto, arriviamo dall’altra parte. Sabbia e dune a perdita d’occhio, fuori il solo sacco a pelo, dentro e dormiamo come tassi.

 

Giorno 3. 28 Dicembre. Sveglia prestissimo, incantati dai suoni dell’oasi. Torniamo a Tozeur per pane caldo, caffellatte e riserva. Troviamo un telefono e rassicuriamo a casa. Puntiamo a Ovest. Rapidamente Nefta e il confine con l’Algeria a Hazoua. Basta poco per capire che è inutile mettere e mettersi fretta. La prendiamo con calma. Non ci vuole poi molto, al mattino i gendarmi hanno voglia di chiacchierare e ci scappa anche il thè. Una volta in Algeria abbiamo ancora un intero giorno di marcia davanti a noi. Allegro con moto, El Oued, Touggourt e poi a piombo verso Sud. Soste brevi, ancora facile trovare qualcosa da mettere sotto i denti. Tutti prendono i franchi francesi. Panino, coca, caffè e sigaretta, e si riparte. Vogliamo arrivare a Bordj Omar Driss, i chilometri spariscono sotto le ruote. Non c’è traffico, per lo più mezzi pesanti, le strade asfaltate svaniscono e lasciano posto a piste larghe di terra dura. Quando non se può più, o per distrarci, usciamo di lato e corriamo sulla sabbia. Il paesaggio piatto si allarga in una sensazione globale di immensità. Il motore canta, e noi dentro il casco. A circa metà strada, più o meno all’altezza di Hassi Messaoud, sosta lunga. Fuori le baguette ripiegate nel bagaglio, formaggio e… l’olio d’oliva. Ne abbiamo mezzo litro in uno dei cubi collassabili, per le grandi occasioni. Ogni attimo di un viaggio è una grande occasione!

Bordj Omar Driss. Una volata. In realtà ci fermiamo prima, all’altezza di Hassi Bel Guebbour, una stazione di servizio, quattro muri e il bivio a Est del nostro viaggio. Il primo campo. Montiamo la tendina a lato dalla pista sulla sabbia. È una notte da sogni d’oro, freschina. All’alba ci svegliano i militari, che inchiodano un camion con uno schianto di sferragliamenti. Scendono, una mezza dozzina. Vai, ecco i guai! Gentilmente ci fanno notare due cose. La prima è che non ci siamo registrati al passaggio in città. È una regola, non solo una formalità. Ogni volta che si attraversa un pezzo di deserto bisogna farsi vivi a un posto di polizia o dai militari, dichiarare itinerario, giorni previsti di viaggio e destinazione. All’arrivo stessa trafila, così ci “cancellano”. È per la nostra sicurezza, se manchiamo all’appuntamento ci vengono a cercare. Siamo in buona fede, non ci sentiamo ancora attraversatori di deserto. La seconda è che ci siamo accampati troppo vicino alla strada. Allah non voglia, può essere pericoloso. Ci chiedono i passaporti e di aspettare. Lo prendiamo come un ordine. Due restano con noi, gli altri ripartono con il camion. Ecco, pensiamo, fottuti. Invece non passano due ore che il camion ritorna da Bordj Omar Driss con i nostri documenti, il foglio di registrazione, pane caldo e una specie di gigantesca brioche. Sai quel brivido quando ti accorgi che la gente è meravigliosa? Colazione insieme, possiamo offrire latte e caffè liofilizzato sulle poltrone di sabbia. Informazioni, risate e saluti. Rotta a Illizi. In pace con il mondo nella musica del monocilindrico. Altri mondi, altre storie. Altri tempi, forse…

Giorno 4. 29 Dicembre. La pista è dritta come un fuso, il fondo duro, solo che è… tole ondulée. Fino a Hassi Bel Guebbour solo a tratti, adesso è un inferno di ondulazioni cortissime, tipo lamiera ondulata, appunto. È il passaggio dei grossi camion stracarichi, a velocità costante, che pian piano trasforma un piano di biliardo in quello strumento di tortura. È insopportabile perché ti fa ballare tutto e la moto sembra disintegrarsi da un momento all’altro. Per fortuna c’è un trucco, aumentare pian piano la velocità. C’è un momento in cui stai per sputare tutti i denti. Un attimo dopo sei sul velluto. In terra non è cambiato niente, la magia è sincronizzare le frequenze delle ondulazioni con il lavoro di sospensioni e gomme. Accade come un miracolo a una velocità precisa. Si torna a procedere spediti, più attenti perché per contro l’aderenza è quella di un hovercraft. Se cali un attimo torni all’inferno, allora riprendi e via. Quando ne hai abbastanza di quell’equilibrio precario esci sulle piste parallele di sabbia. Lì il rischio è un sasso o una buca, quindi ci stai poco. Puntiamo ad arrivare a Illizi, crocevia sahariano e portale del Tassili, e di proseguire fino a Zouatallaz. Circa 500 chilometri di piste facili, interrotte di tanto in tanto da lingue di sabbia (poche in verità, ci deve essere stato poco vento), e poi la magnificenza dell’attraversamento del Tassili. Il Deserto diventa tridimensionale. A Ohanef bisogna prendere a Sud su una pista panoramica, da lì sono 300 chilometri fino a Illizi, e quindi 250 a Zouatallaz. È una lunga giornata di pura euforia motociclistica. Le Moto vanno da dio, tra i 100 e i 110 all’ora il motore borbotta quasi in souplesse, i consumi sono irrisori e i chilometri spariscono. Con il cisternone di Acerbis abbiamo benzina per andare in Chad. Evidentemente, pur tenuto conto del carico, taratura dei carburatori e rapporto finale sono indovinati. I chilometri vanno via, tanto facilmente che a un certo punto pensiamo di prendere la “lunga”, arrivare cioè fino a In Amenas, quasi al confine, e poi scendere in direzione di Illizi. Decidiamo di stare in tabella.

A Illizi abbiamo un momento di stanca. Proseguiamo. Quando il sole sta andando giù arriviamo al bivio nelle vicinanze di Zouatallaz che sarà anche il portale del nostro Sahara. Il bivio era caratterizzato, forse lo è ancora, da una casupola su una facciata della quale era scritto a pennello e a caratteri cubitali “Café”. Provate a immaginare. Dopo 750 chilometri siamo inchiodati dalla visione. Ci fiondiamo dentro. “È vero? Café?” “Cerrrrto”. E se volete anche ristorante!” “Possiamo montare la tendina qui di fuori?” “Cerrrto” “Bene, torniamo tra un attimo per il menù”.

Scegliamo il lato sottovento alla costruzione, montiamo la tendina, fuori i sacchi a pelo a “respirare”, una spazzolata alla polvere per il check della moto. Tutto perfetto. Io credo che tre minuti dopo, ormai buio, siamo dentro seduti al tavolaccio. La stanza è appena rischiarata da una lampada a olio. Il caffè è già servito. Va bene, aperitivo al contrario. “E da mangiare cosa ci proponete, buonuomo?” “Il menù della casa.” “Perfetto, e cioè?” “Uova fritte e pane.” “Perfetto, quattro a testa, per favore.”

La semi oscurità aiuta a non andare troppo per sottile. L’oste porta una padella nerissima sul gas e allunga una mano alla lampada in fondo al bancone. Alza il “carburatore” e lo stoppaccino, con l’altra mano porta il serbatoio verso la padella e travasa una parte del carburante. Mano esperta, non è mancato un solo lumen. Uova all’olio di paraffina. Incrociamo gli occhi schifati, poi ci mettiamo a ridere a crepapelle. Troppo tardi per tirar fuori la nostra riserva. Tra il fatalista e il pioniere curioso facciamo sparire tutto, due coca cola, altro caffè ormai siamo di casa e grazie mille. Délicieux! Passiamo alle brande a pancia davvero piena e… lubrificata.

Giorno 5. 30 Dicembre. Al mattino, ghiaccioli sulla tenda e di ghiaccio l’acqua delle riserve. Dentro i piumini non ci siamo accorti del crollo della temperatura. Fa più freddo di quanto si pensasse, per cui la giornata “utile” diventa un po’ più corta. Partiamo, insomma, quando il sole è già alto. Strana la vita, se fosse estate quella sarebbe una condanna. Si parte con calma dopo la colazione al Café. Caffè nero e una baguette a testa. Il barista è di buon umore e siede con noi. Un’occhiata alle carte, la rotta a memoria. Andiamo a Djanet, la Perla del Tassili in un angolo di Algeria al confine con Libia e Niger. Pochi chilometri. La media crolla come la temperatura perché ce la scialiamo, dentro e fuori le piste, su e giù tra dune facili (sabbia fredda, sabbia portante), divagando tra formazioni rocciose e sculture di erosione. Ecco il senso delle Moto purosangue. Lo spettacolo in technicolor ci porta via tutto il giorno. Talvolta rallentare è un’occasione. Per esempio per andare a vedere le incisioni rupestri del Tassili. Vale certamente la pena di vedere graffiata sulle rocce la storia di quello stesso Sahara un tempo rigoglioso e fertile.

Alle porte dell’oasi un campeggio. Non era in programma ma ormai ci siamo imborghesiti. Rinunciamo persino al leggendario amman di Djanet per una serata di relax. E di programmi. Il nostro “piano”, infatti, prende la sua forma definitiva. Avevamo pensato di scendere nel Ténéré, sconfinare in Niger, incrociare la Dakar ad Arlit e poi risalire verso Tamanrasset. Un record un filo ambizioso, con il biglietto della Habib in tasca. Era per non porsi limiti. Il concetto era che, al diavolo tutto e tutti, avremmo potuto prendere il battello anche ad Abidjan!

Quello che ci fa tornare con i piedi per terra è un fatto semplice: non ci corre dietro nessuno e siamo nell’elemento che eravamo venuti a cercare, il Deserto. Ha un senso. Il senso di una grande pace in sintonia con i ritmi del Sahara e il respiro della sua bellezza.

Decidiamo così di raggiungere Tamanrasset sulle piste dell’ovest. Le carte ci suggeriscono di tornare sui nostri passi fino a Zouatallaz e di cercare la pista dei pozzi. Ottimo. Non è una resa. Solo un cambio di programma e di ritmo. Fantastico.

Giorno 6. 31 Dicembre 1986. Obiettivo Tamanrasset in due giorni. Sulla pista, davanti a noi, una nuvola di polvere. Di solito è un camion. Lo avvicini, lo passi e via, avanti. Quella nuvola, tuttavia, è più larga, occupa tutta la pista e non la raggiungiamo mai. Pian piano ci avviciniamo e tutto diventa più chiaro. Tre motociclette, tre enduro, tre targhe. Come le nostre. Pian piano, ormai vicini. MI-MI-MI. Milano, Milano, Milano.

Uno dei tre improvvisamente scarta e si ferma fuori dalla pista. Gli altri bloccano e noi, ormai a ridosso, inchiodiamo. Che gli sarà successo di così grave da obbligarlo ad uno stop così deciso? Il ragazzo scende di moto al volo, corre cinque passi, si piega leggermente in avanti come se stesse per stramazzare, poi si mette… a fare la pipì. Facciamo conoscenza. Sergio, Glauco, non ricordo il nome del terzo, il più giovane. Marco? (No, leggete per favore la notra a fine del diario, la grabnde sorpresa è lì). Due barboni e un ragazzo. Piero, Piero. Dove andate? A Tamanrasset, e voi? A Tamanrasset. Intesa immediata.

Parliamo più tardi, ora andiamo. Tutti in fila riprendiamo la marcia. Ci sfalsiamo e distanza per non stare nella polvere di quelli davanti e via chilometri. Ogni tanto uno passa a condurre il convoglio.

A Zouatallaz caffè e colazione per tutti. Registriamo la partenza e alziamo il livello della concentrazione. I gendarmi, infatti, ci confermano che c’è un solo bivio, cruciale. Da una parte si va a Tam, dall’altra, verso Nord-Ovest ad Amguid. Dobbiamo contornare a Sud il massiccio dell’Adrar e poi proseguire verso Ovest Sud-Ovest. Dopo 100 chilometri il bivio. È segnato da un cumulo di pietre e due cartelli. Lo devi prendere. Ci sono molte piste parallele che ti portano fuori rotta. Se sbagli sei perso.

Va bene. Seguiamo quelle poche indicazioni alla lettera, a velocità e emozioni controllate. Sull’ultimo cambio di rotta puntiamo con precisione la bussola e quando le piste si moltiplicano teniamo davanti alle ruote quella immaginaria indicata dall’ago. Oggi fa ridere. Inserisci un waypoint e segui la freccia. Non sbagli mai. Allora non era così. E se sbagliavi dovevi fare i conti, oltre che con l’ego, con la benzina e con l’acqua.

Quando sul tripmaster Yamaha scatta il giro completo, 99,99 KM, il cippo si materializza esattamente davanti alla moto!

Hai presente quei momenti in cui fai centro ed esplodi gioia? Eccone uno. Ci abbracciamo come dopo un goal. Ci fermiamo un po’ di tempo, finché l’adrenalina non defluisce. Lì troviamo un solitario con una BMW stracarica che si unisce al gruppo. La pista per Tam diventa più chiara. Procediamo lentamente, gustandoci la “conquista”. Non so quanti chilometri facciamo quando il sole avverte che sta per andar giù. Ci fermiamo, facciamo il campo. Compagnia eccellente.

A proposito, è l’ultimo dell’anno. 31 dicembre 1986! Quasi dodicimila giorni fa.

Saltano fuori tabacchi e alcool, il cibo non è da veglione ma sufficiente, l’atmosfera rallegrata dalla circostanza e dall’ambientazione speciale. Il bivacco di capodanno è illuminato da un gigantesco falò. Glauco e il ragazzo, che è il meccanico del gruppo, a un certo punto sono tornati da una perlustrazione tra le dunette attorno trascinando un’intera acacia secca, probabilmente divelta dal vento.

Scopriamo quella sera, nei fumi surreali di una grande euforia generale, che Sergio, il “capitano” del piccolo gruppo di milanesi, è il Sergio Ottolina velocista bi-olimpionico di Tokio e Città del Messico. Sì, Ottolina, il recordman italiano ed europeo. La bestia nera del “fighetto” Livio Berruti. Ha un carisma bestiale, un vero capitano! Penserò spesso, negli anni successivoi, alla forza di quel carattere, alla sua personalità.

Sì, ma andiamo in branda, che il viaggio non è finito in quel punto X del Sahara. Anzi, è appena iniziato. Siamo definitivamente in cinque, più l’”ospite”. Magnifico! Due Yamaha TT e tre Honda XL. Sì, perché il Sergio del 1987 è concessionario Honda a Milano. E questo spiega il meccanico al seguito.

Il punto X nel Sahara, invece, è spiegato dal fatto che nel 1987 non solo non c’erano i telefonini, e in Algeria quasi neanche i telefoni, ma neanche quel cavolo di GPS che, partito dalle dimensioni di un televisore, ora è in un angolo del chip di ogni smartphone. Altro che privacy, in quel capodanno del 1987 nessuno, dico nessuno, sapeva dove ci trovavamo. Neanche noi! La navigazione era affidata alle carte IGN, Michelin, in particolare la leggendaria 153, e una Jet Navigation Chart. L’interfaccia è la bussola da rilevamento, il resto potenza dell’istinto, ovvero fortuna. L’avete capito!

Giorno 7. 1° Gennaio. Buon anno. Buon 1987! “Giù dalle brande!” urla il ragazzo di Saronno. Ripartiamo. Obiettivo Tam, ma anche risparmiare. Acqua, benzina, meccanica. Media bassa, attenzione altissima. Forse 200 chilometri per Ideles, la prossima benzina, crediamo. La pista è chiara ma non così facile. C’è molta sabbia, tagli d’acqua in secca, sassi. Ogni volta che la difficoltà è netta ci fermiamo e raccogliamo le idee. È una specie di reset. Procediamo non certo spediti ma sicuri. Ideles è una piccola oasi crocevia. A Sud verso Tam, a Ovest la pista prosegue fino alla Transahariana. Non c’è un distributore “convenzionale”, ma troviamo il carburante. Ottolina e Company, insieme al nuovo arrivato, decidono di puntare a Ovest e raggiungere la Transahariana per scendere poi a Tamanrasset. E qui noi, Piero e Piero, facciamo un paio di cazzate. Abbiamo un sacco di benzina e non facciamo il pieno, ecco la prima, optiamo per la direttissima, crediamo un centinaio di chilometri facili verso Sud, ed ecco la seconda. Sono stupidaggini non gravi ma concettuali. Punto 1, serbatoi e pancia, nel Deserto vanno riempiti fino all’orlo ogni volta che capita. Punto 2, la pista più facile o evidente è anche quella da preferire. Ci salutiamo, appuntamento al mercato di Tamanrasset. Loro sanno già che si fermeranno sulla Transahariana a dormire, noi contiamo di arrivare a destinazione prima del tramonto. La terza cazzata!

Per i primi chilometri non cambia nulla. Non si corre ma si scorre. Poi la pista diventa sempre più tortuosa e incerta finché non si confonde con i letti incrociati e dissestati di chissà quanti corsi d’acqua episodici ora in secca. Adesso la pista è davvero impegnativa. Ognuno di noi sceglie la propria traiettoria, tutti e due credendo di essere sulla strada giusta. Sta per arrivare la quarta idiozia. Ci si incrocia e si diverge cento volte, poi a un certo punto, troppo impegnato nella guida, mi scordo del “socio”. Quando finalmente guardo nello specchietto di polvere c’è solo la mia. La visibilità, in quel mare di dune mosse, è limitatissima. Mi fermo di schianto, spengo il motore e tolgo il casco. Confido nella voce del potente megafono Arrow normalmente udibile a miglia di distanza. Nulla. Aspetto. Niente. È quanto basta per farti intrecciare i fili dentro la testa. Ero davanti, ma lo sono ancora o in tutto quell’incrociare è davanti lui? Silenzio, che vuol dire, magari che è caduto o ha avuto un guasto? Scruto a lungo l’orizzonte ma vedo solo il sole che inizia ad andar giù. Ecco, tra non molto è buio, e l’inquietudine diventerà panico. Alla fine scarto le ipotesi peggiori e decido di rimettermi in marcia lentamente, rotta a Tam. Mancheranno una sessantina di chilometri. Se anche Piero ha avuto la stessa idea magari prima o poi ci incrociamo di nuovo.

In effetti è così. Lui era su una pista più giusta della mia e ha incontrato un gruppo di ciclisti tedeschi che viaggia con un rimorchio-loculi trainato da un pullman 6x6. Rotel Hotel, solo i tedeschi! Si è fermato, ha chiesto se mi avevano visto passare, niente, è rimasto un po’ di tempo in ascolto e poi è ripartito anche lui in direzione Sud.

Passa una mezz’ora. Un attimo prima che il sole sparisca ci scorgiamo a vicenda e ci riuniamo. Spengiamo i motori, scendiamo, ci togliamo i caschi, via i guanti e… manca poco ci uccidiamo! L’adrenalina gelata si scioglie in irripetibili invocazioni al dio degli imbecilli. Per un po’ ci scambiamo badilate di improperi e di accuse, poi ci calmiamo e siamo finalmente contenti di esserci ritrovati, “sani e salvi”.

La cosa migliore che potremmo fare è tirare fuori i sacchi a pelo, e goderci la “riappacificazione” sotto uno di quei cieli stellati che solo l’Africa. Invece sfoderiamo la quinta minchiata. Decidiamo di proseguire fino a Tam! Che ci vuole, saranno una cinquantina di chilometri! Certo, siamo lì per ora di cena! E al lumino di serie dei TT ci incanaliamo nell’oued in secca che corrisponde ai gradi bussola della destinazione. Un inferno. Prima e seconda, la benzina scende, cadute, travasi di bile e di adrenalina, sudore bollente che si congela lungo la schiena. Tuttavia, alla fine del girone dei coglioni, all’una di notte arriva Tamanrasset. Sfiniti puntiamo un hotel, casualmente il migliore di Tam, svegliamo tutti portando le moto fin davanti alle stanze. Senza dire una parola ci infiliamo a letto e andiamo KO.

Giorno 8. 2 Gennaio. Cinque volte stolti in un solo giorno vuol dire che o ti suicidi o ci dormi sopra della grossa. Finalmente la doccia. Per una settimana ci siamo lavati come i tuareg, l’acqua di una teiera. Quando scendiamo per la colazione è ormai ora di pranzo. Siamo molli e abbiamo ancora quel retrogusto di coscienza sporca. L’unica cosa giusta che facciamo è trovare un telefono, la linea che funziona e aggiornare le rispettive famiglie. Non diamo notizie da una settimana. Beh, a quei tempi non era ancora troppo. La telefonata quotidiana era un concetto “europeo”, e in quel caso eravamo stati chiari: è possibile che non si riesca a comunicare per tutta la durata del viaggio. Fresco come una rosa, allegro come una festa, a metà pomeriggio arriva l’assennato Otto con la sua Band. “Giù-dalle-brande” è partito verso Nord. Loro viaggio bellissimo, noi minimizziamo sulle ultime ventiquattro ore. Ceniamo tutti insieme attorno a un tavolo, un camion di cous-cous, li aiutiamo a sistemarsi in hotel e tutti a nanna.

 

Giorno 9. 3 Gennaio. È la giornata del turista. Tamanrasset nel 1987 non è poi questa meraviglia, ma è pur sempre un interessante avamposto. Crocevia carovaniero, qui i Tuareg hanno iniziato a sedentarizzarsi, e li vedi far vita da commercianti, padri di famiglia a far la spesa, passare le ore al caffè. E noi pure. La moschea, il mercato tra cianfrusaglie, verdure secche, spezie e “insegne” di macelleria sanguinanti, vie polverose e gente ovunque. Non è piazza della Signoria o i Lungarni, ma completiamo il giro in una bella disposizione d’animo. Quando ci si conosce da poco le cose da raccontare non finiscono mai, e la chiave del racconto di un branco di avventurieri scioperati porta sempre a una cascata di buonumore. È un dono del viaggio. Ne ragioniamo un poco al Caffè, e poi riuniti nel cortile nel giardino dell’hotel per il tagliando di metà viaggio. Sostanzialmente olio e filtro, controllo della bulloneria e dei raggi, catena, lavata e check visivo completo. Il pomeriggio se ne va e cominciamo a mettere a fuoco il viaggio di ritorno, che si incentra sull’incrocio della Dakar. Riflettiamo. Se li aspettiamo a Tam poi il viaggio di ritorno diventa obbligatoriamente supersonico, quindi è più logico andar incontro al Rally risalendo la Transahariana. Va bene. Risaliremo fino alle Gole di Arak, 350 chilometri, e il giorno dopo raggiungeremo In Salah, sede di arrivo della 5° Tappa della 9a Parigi-Algeri-Dakar 1987. Vuol dire altri due giorni di ozio a Tamanrasset.

 

Giorno 10. 4 Gennaio. Ozio? Non se ne parla! A fine tagliando l’idea è già lievitata in un piccolo, gustosissimo extra. Andiamo a fare la “speciale” dell’Assekrem. Alla sera abbiamo scaricato completamente le moto e lasciato i bagagli in albergo. Fatta benzina, ma giusto quanta ne basta. Poco dopo l’alba colazione e, carichi come molle, andiamo all’attacco del massiccio dell’Hoggar. 33 anni fa uno spettacolo indimenticabile, oggi suppongo le stesse emozioni, magari più “condivise”. Un’ottantina di chilometri per salire fino all’eremo di Padre de Foucauld, altrettanti per scendere, su un’altra direttrice. Un anello sontuoso di sterrati che ti portano fino ai 2.500 metri di una terrazza con un colpo d’occhio mozzafiato. Tutt’intorno una corona di gigantesche, monumentali formazioni vulcaniche e di erosione. Tra queste il Tahat, la montagna più alta d’Algeria. La strada è bella ma pericolosa, soprattutto per le Moto. Sassi, tornanti e strapiombi. Non è il caso di tirare una ciabattata in terra e fare danni proprio al giro di boa del nostro viaggio. Diventa una lunga cavalcata di puro piacere. All’eremo c’è anche il santone, piuttosto riservato ma ospitale. L’atmosfera diventa speciale e per un paio d’ore rinunciamo alle nostre chiassate per concederci a una parentesi di religiosa dignità. Dopo il thè ci accomiatiamo dal Fratello di Gesù che è stato il nostro anfitrione, lo ringraziamo e scendiamo come purificati, leggeri come piume. Oltre il tramonto Tamanrasset. Giornata memorabile. Una controllata alle moto, carichiamo di nuovo i bagagli con la consueta attenzione. È un’operazione di precisione. Tutto deve andare al suo piccolo posto giusto. A fine serata chiamiamo casa e informiamo del nostro programma. Dormiamo beati.

Giorno 11. 5 Gennaio. La direzione dell’hotel ci fa notare che non abbiamo più notti a disposizione, sta arrivando la Dakar. Ribattiamo che siamo sul piede di partenza. Non prima di un’altra piccola minchiata, l’ultima. La colazione pantagruelica che deborda in qualcosa che richiamerà la nostra attenzione più avanti. La Transahariana è brutta e bella. La strada è in pessimo stato, però c’è la sicurezza della direzione e l’effetto di scorrere sulla direttrice Sahariana più famosa del Paese. Beh, forse lo è di più la temuta e leggendaria Bidon 5 che, più a Ovest, porta da Reggane fino al Mali. Dopo un centinaio di chilometri, oltre il pozzo di In Ecker, la miccia finisce di bruciare e il burro dei croissant mi esplode nello stomaco. Stringo il culo, accelero come un dannato e lascio la pista principale divergendo sulla sabbia. Volo… Gli altri pensano a una “provocazione” e si lanciano all’inseguimento. Più forte, e tutti dietro. Alla fine inchiodo in scivolata, lascio la moto in terra e mi nascondo, dannato piattone, dietro a una duna alta trenta centimetri. Appena il tempo di tirar giù i pantaloni…  e dagli spalti arriva lo scroscio di applausi degli amici. Amici! Una volta svuotato torno sano come un pesce e riprendiamo la strada. Gli “amici” sghignazzano per almeno una cinquantina di chilometri ancora. Lo vedo dalla mimica. L’altra parte della carreggiata è più frequentata. Scendono i mezzi della Dakar, tipo i bilici di Peugeot, quelli che viaggiano un paio di giorni almeno davanti alla corsa per portare ogni tipo di generi di “prima necessità”. Quando la pista diventa improvvisamente tortuosa siamo oltre metà strada verso In Salah. Le gole di Arak, un magnifico serpente di canyon tra le sabbie del Sahara. Ci fermiamo sulla sabbia aperta, all’ombra delle rocce non di rado spunta il serpentello o lo scorpione, e montiamo il campo. Serata di vigilia della Dakar. Piccolo fuoco, qualche storia della nostra vita. Il viaggio è bello, viaggiare è bellissimo. Che facciamo l’anno prossimo? Perché non proviamo ad attraversare l’Atlantico in barca a vela? Bene. Approvato. Succederà davvero! Un caffè caldo e ci infiliamo nel piumino. Non c’è sensazione più bella, quando la temperatura scende accompagnata dalla stanchezza.

 

Giorno 12. 6 Gennaio. Sovreccitati dall’appuntamento all’alba siamo pronti. Il sole sale e noi siamo in sella. La salita verso In Salah è senza storia, ovvero è la musica del monocilindrico che risuona rassicurante nelle orecchie. Arriviamo presto, il bivacco della Dakar è già montato. Non è quello che ci si immagina oggi. È un’area aperta non lontano dalla pista dall’aeroporto, i camion di AfricaTours che delimitano l’area “vitale” e tutt’attorno, in un raggio che può superare il chilometro, i mezzi di assistenza sparsi a discrezione degli equipaggi. Ci confondiamo con gli “ufficiali”. All’epoca non erano molti i visitatori curiosi, così tutti facevano finta di non notare i turisti. Piero si fa notare solo perché sta dando fondo alla mousse au chocolat che è il dessert della cena AfricaTours. Sì, erano le Dakar che non solo giravi per il bivacco come uno di loro (oggi il recinto è blindato), ma potevi stare con loro, mangiare con loro. Recuperavi una gavetta e ti mettevi in fila, accanto a Gaston Rahier che lo scoprivi per caso e non capivi come faceva a salire sulla sua BMW, insieme a Terruzzi che non stava mai zitto o alle spalle di Picco che era il tuo idolo ma non vinceva mai. Orioli era già in branda a studiarsi la Tappa. Erano anche le Dakar che non si arrivava tanto presto.

Viene buio e inizia la lunga notte della Dakar, generatori accesi, fari e lampade frontali che scrutano ovunque. Il primo Dakariano che incontriamo è l’eroico Bruno Birbes. Vaga per il bivacco alla ricerca di un pezzo di ricambio. E poi tutti gli altri. La tappa l’ha vinta Ciro De Petri, il Rally lo vincerà Cyril Neveu per la quinta volta, ma solo dopo che il gigante leggendario, Hubert Auriol detto l”Africano”, nove minuti avanti, si sarà rotte entrambe le caviglie dentro gli stivali, privando la CaGiVa di una vittoria già strameritata. Ascoltate il racconto di Nico Cereghini, il più bello della storia della Dakar e del giornalismo.

Orioli farà secondo e Picco quarto. Passiamo buona parte della notte a bocca aperta, sovreccitati dalla Dakar e consumati da un vento gelido assassino. A un certo punto decidiamo che almeno un paio d’ore dobbiamo dormirle. Anche noi ripartiamo presto.

Giorno 13. 7 Gennaio. L’alba. Il bivacco si svuota rapidamente. Una volta partito il Pilota, sparisce anche la sua Assistenza. Restano sul campo i segni di guerra del passaggio della Dakar. Vediamo partire i big. Capiamo che Rahier sale solo se la monumentale BMW è appoggiata al camion, e scopriremo da Neveu che, se cade, il belga si metterà di traverso sulla pista e fermerà il primo che passa per farsi aiutare. Qualche foto, la colazione al Camion AfricaTours, Piero ha il coraggio di chiedere se è rimasta un po’ di mousse (non ricordo come si dice “vai a cagare” in francese) e ci mettiamo in marcia. A malincuore nella direzione opposta, verso Nord. Ci restano tre giorni per guadagnare Tunisi e l’imbarco.

La bomba alimentare a orologeria scatta ancora dopo 150 chilometri. Piero sta male. Febbre. Che facciamo? Lui dice che andiamo, più avanti possibile, ci avverte lui quando non ne può più e allora ci fermiamo. El Golea, Ghardaia. Avanti! Ourgla, Touggourt. Dai! Passiamo la notte lungo la Transahariana? No, avanti. Presto detto. Arriviamo al confine, poi Nefta. Il Sahara Palace. 1.200 chilometri tutti d’un fiato! Partiti stanchi e lui malato. Piero è un macigno, lo infiliamo a letto con una raffica di aspirine e una benedizione, non si sa mai. Dopo esserci ingozzati come gabbiani, torniamo a vegliare sulla sua rapidissima guarigione.

La Tunisia inversa è una passeggiata. Passiamo da Sfax, il Colosseo di El Djem, pesce arrosto a Hammamet e ultima notte tunisina in hotel. Al mattino, di buonora, siamo alla banchina de La Goulette, puntuali all’imbarco. “Giù-dalle-brande”, con il quale avevamo un vago appuntamento al porto, non c’è. Capace che ha cambiato idea e ha messo la prua della sua BMW su Abidjan!

 

Questo diario è dedicato a tutti gli appassionati di viaggi africani, a Sergio e alla sua banda che non sono riuscito a ritrovare e che spero si rileggano con la stessa nostalgia. È stato un grande viaggio!

*** Nota aggiuntiva. Nel corso degli anni abbiamo spesso pensato a un nuovo viaggio sahariano. La situazione algerina non è mai più stata così rilassata da consigliarlo, e quindi il pensiero è stato rimandato di anno in anno trasformandosi piano piano nel concetto di un “Viaggio Vintage” (noi compresi) molto interessante. È singolare notare che in ogni caso ci piacerebbe scegliere un viaggio molto simile, per non dire uguale, le stesse rotte, le stesse moto, ritenendo le TT ancora super attuali, e che rinunceremmo volentieri per un po’ di tempo a telefonini e GPS (magari solo un Thuraya per la sicurezza) in favore di un po’ di avventura disintossicante.

*** Seconda Nota aggiuntiva. Dopo oltre trent'anni una specie di miracolo di realizzazione. Uno dei desideri che mi aveva spinto a pubblicare il nostro diario di viaggio era la speranza che, legggendolo, uno dei protagonisti milanesi, di cui avevo perso le tracce, si facesse vivo. Quando ormai non ci speravo più è successo. Giovanni "Gio" Girino, il ragazzo-meccanico che viaggiava insieme ia Sergio e Glauco, ci ha ritrovati. Il "miracolo", dopo un anno, è che lavorando allo stesso tema e cercando su Google, ha fatto centro. Dovreste riscire a immaginare la gioia e l'emozione. Non credevo, fortissima. Adesso quel viaggio e il suo diario ha chiuso il cerchio delle intenzioni. Piero P ed io non vediamo l'ora di incontrarci con Sergio, Glauco e "Gio". Ne abbiamo da raccontarci!

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