Alberto Strazzari (Engines Engineering): 40 anni di moto

Alberto Strazzari (Engines Engineering): 40 anni di moto
Ha fondato 40 anni fa a Bologna una società capace di realizzare una moto partendo dal primo disegno per arrivare al modello di preserie. Ha lavorato con aziende di tutto il mondo. Ecco la sua storia | di Klaus Nennewitz
2 maggio 2020

Alberto Strazzari ha settant'anni e nel 1979 ha fondato nel bolognese la Engines Engineering, nota azienda di engineering che si occupa di progetti due ruote di cui è anima e amministratore delegato.

Nella struttura di Castenaso, in provincia di Bologna, oggi lavorano circa cento persone, e questa azienda è forse l'unica al mondo che può offrire tutti i servizi per consegnare un progetto motociclistico “chiavi in mano”: dai primi bozzetti di stile su carta fino al veicolo definitivo di preserie omologato e collaudato.

La Engines Engineering ha una profonda esperienza, dagli scooter alle maximoto complete, ed ha lavorato praticamente con tutte le case costruttrici di moto nel mondo. Dagli Stati Uniti passando per l’Europa, dall’Italia all’India, dal Giappone alla Cina.

Alberto, come sei partito con la Engines Engineering e come mai questo nome?
«Dopo gli studi mi occupavo della progettazione di ingranaggi, poi seguivo piccoli motori per ciclomotori e applicazioni agricole. Avevo anche una proposta di lavoro da parte della Minarelli, ma poi, nel 1979 la ditta Bernardi - che produceva tra l’altro ruote in plastica per biciclette - mi commissionò il progetto di un piccolo motore ausiliario per biciclette. Questo progetto mi tenne occupato per un anno e così nacque l’idea del nome Engines Engineering».

Poi il passo verso i progetti due ruote…
«Le moto in quegli anni avevano ancora parti della carrozzeria in lamiera, incontrai una persona che produceva vacuum forming per componenti moto, quindi iniziai con la realizzazione di modelli e stampi. Il primo progetto fu la carrozzeria di una minimoto da Cross per la ditta LEM che era una piccola copia di una vera moto da cross e non un telaio con un serbatoio da moped.

In un passo successivo cominciai a disegnare moto complete con la carrozzeria in materia plastica e poiché il sottovuoto aveva dei grossi limiti di stile e di qualità (non si potevano fare i sottosquadri o spigoli troppo accentuati) cominciai ad interessarmi allo stampaggio ad iniezione.

Con un partner che investì nelle macchine ad iniezione realizzammo il primo modello Malaguti, il Dribbling con carrozzeria in plastica.
Il progetto piacque a Malaguti e quindi abbiamo esteso la collaborazione. Dal 1982 abbiamo progettato tutti i modelli di Malaguti tranne il Tubone Monobraccio 50 Evolution, fatto da Marabese. Per la cronaca il Tubone fu inventato a Bologna, il primo modello era l’“Oscar College” fatto da Oscar Belvederi della ditta Oscar di Rastignano.

Contemporaneamente partì la collaborazione con Ducati e Moto Morini, abbiamo lavorato sulla carenatura della Pantah 600, che era in origine in vetroresina fatta a mano, l’abbiamo realizzata con un termoindurente preimpregnato e con stampi in acciaio.
In quegli anni la Fiat Ritmo era la prima macchina con paraurti in plastica ad iniezione, la Renault utilizzava ancora pezzi in vetroresina».

E così arrivarono altri clienti stranieri
«Nel 1987/88 la Honda progettò la prima moto fuori del Giappone, era la NX 125. Abbiamo collaborato per lo stile e per l’industrializzazione facendo una proposta che assomigliava molto alla futura Dominator ma il modello finale assomigliava molto alla NX 250, uscita in Giappone poco tempo prima. Avevamo costruito il modello di stile a mano con poliuretano e stucco metallico, per i rilievi ci recammo nello stabilimento di Atessa, dove era in funzione una delle prime macchine per i rilievi delle sagome 3-D in Italia.
Il risultato fu convincente, allora anche noi ci siamo comprati la prima piana in granito con un rilevatore 3D della DEA.

In quegli stessi anni iniziò il rapporto tecnico con Yamaha, che forniva tramite la Minarelli il motore e altri componenti per il Malaguti Runner 125
Dieci anni dopo anni partì anche la prima collaborazione con Yamaha per lo Scooter Majesty 125».

Quindi in Europa siete stati fra i primi a progettare uno scooter con carrozzeria completa in plastica

«Malaguti voleva entrare da tempo nel mercato degli Scooter 50, però mancava il motore. Nel 1990 Minarelli fece l’accordo con Yamaha per produrre il motore del Booster 50 con cilindro verticale che diventò poi di esclusiva Aprilia. Su richiesta di Malaguti nel 1991 venne autorizzato anche la produzione del motore col cilindro orizzontale per il Malaguti F 10. Immediatamente dopo abbiamo chiesto di allungare il motore per montare le ruote da 12 pollici del Malaguti F 12 Phantom, che fu il primo scooter al mondo con ruote da 12”.

Questo scooter è stato un progetto di grandissimo successo, è rimasto in produzione nelle differenti varianti fino alla chiusura di Malaguti nel 2011. Ne sono stati prodotti fra 350.000 e 400.000.
Con lo stesso motore fu progettato anche il primo Centro, con motore 50cc e con la ruota da 14”.

La chiusura di Malaguti nel 2011 è stata un duro colpo per noi, ma una piccola azienda generalista non poteva essere competitiva senza la propria produzione di motori in casa in un mercato sempre più competitivo».

Come avete affrontato la crisi del 2008?
«Il 2008 era per noi uno dei migliore anni della storia, con circa 60 dipendenti avevamo fatturato 8 milioni di euro. La vera crisi per noi arrivò nel 2009 e 2010: scendemmo a 5,5 milioni di fatturato con appena 45 dipendenti. Ma non è stata solamente la crisi del mercato a rendere il lavoro difficile per noi. Nel 2008 avevamo siglato l’accordo con la Mahindra Engineering.

Questo ci aveva tolto l’immagine della indipendenza perché nel frattempo il gruppo Mahindra aveva iniziato la propria produzione di moto e tanti costruttori, specialmente quelli indiani, hanno cessato i rapporti con noi per preoccupazioni legate alla segretezza. In più, essendo il gruppo Mahindra quotato in borsa, c’è stato un aumento molto pesante della burocrazia che ci ha tolto la nostra agilità e flessibilità. Nel 2011 abbiamo ripreso la Engines Engineering con un management buy-out, nel 2012 siamo andati in pareggio e nel 2013 siamo cresciuti di nuovo con un bilancio economico positivo a fine anno. Oggi fatturiamo all’incirca 12 milioni con uno staff di cento persone».

Sei stato uno dei primi in Europa a lavorare con partner tecnici stranieri
«Nel 1992 avevo siglato un accordo con l’ufficio statale dell’automobile NAMI a Mosca. Avevano molta esperienza con i catalizzatori e con i trattamenti dei gas di scarico. Fummo negli anni Novanta un fornitore importante di catalizzatori per le case motociclistiche in Europa. Abbiamo chiuso l’accordo nel 2010 a causa della crisi di quegli anni.

Nel 1995 cominciammo la collaborazione con la Hero Puch indiana e verso la fine degli anni Novanta con la TWS. Nel frattempo ci eravamo attrezzati bene in Italia: nel 1995 abbiamo traslocato nel nuovo stabilimento più grande a Castenaso, l’anno successivo abbiamo comperato il primo banco prova motori e quello per l’inquinamento. Poi progettammo e costruimmo il drum test, un banco per le prove dinamiche di durata del veicolo completo. Nel 2005 iniziammo i primi rapporti con i costruttori cinesi».

Quali sono state le differenze principali nel modo di lavorare con cinesi e indiani?
«Il mercato cinese era molto più grande di quello indiano e con una maggiore varietà di modelli, semplicemente perché i cinesi copiavano i modelli giapponesi ed europei. La situazione in India si presentava diversamente: alcune case avevano comprato le licenze per produrre veicoli europei e giapponesi e si erano mosse molto prima, con orgoglio, a progettare veicoli originali.

Possiamo dire che i cinesi venendo da una esperienza di governo rigidamente socialista, dove tutto era programmato dallo stato e le fabbriche semplicemente eseguivano, non avevano la mentalità di ricercare prodotti nuovi, mentre gli indiani avendo un background di cultura anglosassone avevano una mentalità molto più aperta. Non posso dire se si lavori meglio con un paese o con l’altro, alla fine dipende molto dai rapporti personali che uno riesce a stabilire. Personalmente ho avuto, e ho, rapporti molto buoni in particolare con una azienda cinese e una indiana».

Come giudichi l’invasione cinese? Come andrà a finire?
«A medio lungo termine probabilmente daranno fastidio alle case europee. La Qianjiang è stata brava con Benelli, oggi hanno dei prodotti molto interessanti. Comunque non dimentichiamo che ci hanno messo più di dieci anni! Hanno avuto una visione e sono stati costanti, la perseveranza alla fine paga. Ma probabilmente avevano sottostimato i costi per una tale operazione.
Poi ci sono altre aziende: la Haojue, per esempio, si era legata alla Suzuki per alzare il livello di qualità fino agli standard giapponesi».

Che tecnologia trovi oggi in Asia che ti può essere utile per i clienti europei?
«La cosa più importante è che trovi la buona qualità a un prezzo decente».

Quanto complicato è diventato lo sviluppo di un veicolo Euro 5 rispetto a un Euro 2 del 2000?
«Per quanto riguarda i motori devi fare un lavoro simile, Bisogna impegnarsi di più nell’elettronica e nei catalizzatori, ma non cambia tantissimo perché la tecnologia è cresciuta con gli anni».

Come fai ad assicurare la qualità con i componenti prodotti da fornitori asiatici?
«Per noi che non dobbiamo produrre in Asia, sono sufficienti le riunioni periodiche. Chiaro che un’azienda che produce in Asia come la BMW deve avere dei referenti che monitorano costantemente la qualità del lavoro. Ma poi devi avere dei referenti specifici per ogni paese, quindi dei cinesi, indiani… per noi non ha senso avere filiali in questi paesi, i costi non giustificano l’impegno.

E l’ingegneria globalizzata che vantaggi vi porta? Come potreste lavorare h24/7 su tutto il globo?
«No, per noi è più importante poter lavorare con case motociclistiche dall’America fino al Giappone, passando per l’Europa e la Cina e l’India. Questo ci permette di confrontare i processi diversi e di imparare. Abbiamo la possibilità di ottimizzare il nostro processo di sviluppo e di trasformarlo in uno globale, così possiamo essere molto più rapidi dei nostri clienti.

Faccio un esempio: il costo del prodotto in India è più basso che in Cina. Questo comporta che si deve sempre cercare di ottimizzare i componenti nella progettazione per risparmiare ogni centesimo di Rupia possibile. I prodotti indiani da questo punto di vista sono più ricercati, più pensati e, alla fine anche più sofisticati perché ti muovi su un livello di costo complessivamente più basso.

A livello di costo dei componenti, l’india è oggi circa 15 % più economico della Cina. Per quanto riguarda la qualità: nel 2000 un motore cinese raggiungeva il 50-60 % di qualità di un motore europeo. Già nel 2009, quando Malaguti cominciava a fornirsi dalla Cina, questo valore era al 90 %. Rispetto ai primi anni 2000 il livello è cresciuto tantissimo».

Quali sono le sfide del futuro?
«Nel 1991 avevo già costruito una macchina da corsa elettrica, tre anni fa abbiamo creato il reparto per lo sviluppo dei veicoli elettrici, perché credo nel futuro di questo mercato: è solo questione di tempo. Attualmente circa 300 città cinesi sono chiuse alle moto. Il mercato cinese era più rurale con moto di 125 cc molto funzionali, ma adesso questo mercato è crollato, da 25 milioni di moto all'anno è sceso a 8 milioni e si sta trasformando in un mercato più sofisticato di moto che non sono solo commuter, ma invitano anche a un uso nel tempo libero».

Alcune case asiatiche potrebbero essere molto interessato a comprare la tua azienda
«Finché ci sono io, non se ne parla! Ho già fatto l’esperienza con Mahindra: non puoi fare parte di un gruppo motociclistico ed essere un partner per engineering outsourcing che offre servizi a OEM internazionali. Adesso lavoro un po' meno perché la nostra struttura tecnica è stata molto potenziata negli ultimi anni.
In realtà la crisi del settore motociclistico in Italia ci ha fatto acquisire parecchi bravi ingegneri, ma cerco di essere sempre aggiornato e creativo per portare delle idee nuove e per sviluppare il settore dell’elettrico.

Comunque le aziende basate su una persona, come era la mia di qualche anno fa in cui io mi occupavo di tutto, diventano sempre più rare. Come ho detto abbiamo tantissimi specialisti molto bravi, ma quello che è molto importante è il ruolo che io chiamo “L’integratore”: quello che connette gli specialisti e che prende le decisioni.
Il miglior progetto non può essere quello con tutti i migliori componenti, ma è quello ottimizzato con il migliori compromesso! In questo, noi della Engines Engineering siamo fortissimi. Perché prendiamo ancora le decisioni basate su anni di esperienza che hanno creato grandi competenze».

Il progetto più bello che hai mai fatto?
Lo devo ancora fare! No, forse il Malaguti Phantom F 12, il miglior compromesso tra apparenza e sostanza.

Grazie Alberto.

di Klaus Nennewitz

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