Agostini: «Sono stato grande»

Agostini: «Sono stato grande»
Moreno Pisto
15 mondiali, 18 titoli italiani, 10 Tourist Trophy: nessuno come Giacomo Agostini. Dicono che per anni non ha avuto avversari, ma alla fine resteranno i record, i fatti, i risultati. Nel 68, 69 e 70 ha addirittura vinto tutte le gare. Intervista all’uomo più vincente della Storia del motociclismo che ha appena compiuto 76 anni. Sulle gare, sul senso della vita, su come ha fatto a vincere sempre, a vincere così tanto: «Non lo so, ho sempre dato il meglio di me stesso».
22 giugno 2018

Siamo sul divano della veranda, vetrata che affaccia sul parco e sulla piscina. Scandisce bene: «Io ho vinto pure 18 titoli italiani. Pu-re-di-ciot-to-ti-to-li-ita-lia-ni. Uno anche di gare in salita». Oltre a tutto il resto, claro. Che sono solo 15 campionati mondiali. Scandiamo bene pure noi: quin-di-ci-cam-pio-na-ti-mon-dia-li. Va bene che il motociclismo è pane e salame, ma forse continua a sfuggirci qualcosa quando parliamo di Giacomo Agostini e con Giacomo Agostini: che siamo davanti a una leggenda, davanti alla Storia: un’Iliade umana, un Napoleone senza Waterloo. Siamo davanti a qualcosa di imparagonabile. Tutti credono di essere i migliori. Lui lo è. Oggi e per sempre. Dicono che per anni non ha avuto avversari, ma in realtà ha battuto tutti, tra gli altri anche campioni come: Phil Read, Jarno Saarinen, Kenny Roberts, Tarquinio Provini, Jim Redman, Mike Hailwood, uno che per farvi capire veniva chiamato The Bike. Alla fine resteranno i record, i fatti, i risultati e forse, nel mondo dello sport, reggeranno il confronto solo Pelé (forse). Forse solo Michael Jordan (forse).

 

Giacomo Agostini sulla MV Agusta 500 parcheggiata in casa sua (Photo by Gabriele Micalizzi)
Giacomo Agostini sulla MV Agusta 500 parcheggiata in casa sua (Photo by Gabriele Micalizzi)

 

Lo aspettiamo in una zona periferica della sua città, coi bambini che giocano nel parco, un bar di cinesi, L’Eco di Bergamo all’entrata, e lui poco dopo arriva in scooter, casco AGV in testa. Ci scorta a casa, una villa di 8mila mq, in garage motorini, una Yamaha XSR700 con 15 stelle, cinque MV Augusta e varie auto. Dentro, foto e premi e quadri e ritagli di riviste e giornali incorniciati ovunque, la MV Agusta 500 coperta da un telo, c’è pure un suo cartonato a dimensioni naturali. E fuori, la piscina ancora coperta. C’è chi si giustifica dicendo: ah, se avessi avuto più testa, se avessi avuto un’altra moto… Agostini sorride, di quel sorriso appena accennato, e ogni volta aggiunge qualcosa: «Ho vinto 10 Tourist Trophy, 123 gran premi e sono andato sul gradino più alto del podio 311 volte, cioè ho vinto 311 gare».

«Penso spesso al Tourist Trophy, quando ho lottato con Mike Hailwood, nel 67. Il Tourist Trophy era una gara durissima, toglievi i guanti e ti uscivano i pezzi di carne dalla mani, era bestiale»

Ecco ma quando correvi ti rendevi conto che stavi facendo qualcosa di unico?

«Sì e no. Quando ho vinto il mio primo titolo mondiale nel 66 sono tornato a casa e non ci credevo. Il giorno dopo mi sono emozionato vedendo i giornali, fino a pochi anni prima ero un cadetto, mi sembrava un sogno. Non so, ero un po’ confuso, capito? Poi ho cominciato a vincere, ho cominciato a battere i grandi campioni, ho cominciato a ripetermi, perché tutti abbiamo vinto delle gare difficili, in molti abbiamo vinto un campionato del mondo, ma la difficoltà è restare, ripetersi, mantenersi».

Come si fa a essere la versione migliore di se stesso?
«Be’ innanzitutto devi trovare la tua passione, il tuo talento. Se qualcosa non ti ossessiona, trova un’altra ossessione. Perché il talento non basta, poi ti devi dedicare, lo devi coltivare questo dono, devi stargli dietro, devi prepararti, devi allenarti, perché sai quante volte mi chiedevano: “Ti ero incollato, poi tu hai fatto la curva e io sono caduto, ma tu come fai?”. E io rispondevo: “Non lo so come faccio. So che do tutto di me stesso”».

 

Gamba fuori (vi ricorda qualcuno?) e impennata con la MV 500 (Photo by Gabriele Micalizzi)
Gamba fuori (vi ricorda qualcuno?) e impennata con la MV 500 (Photo by Gabriele Micalizzi)

 

Tu hai presente qual è stato il momento rivelatore di questa cosa?
«Forse la prima gara, la Trento-Bondone. Ho comprato una moto, ho preso un meccanico che poi era il panettiere del paese e ci sono andato».

18 Luglio 1961.
«Sì, su quarantatre piloti arrivo secondo alle spalle del celebre Scoiattolo della montagna, al secolo Attilio Damiani, con una moto privata che avevo appena comperato, che non aveva i freni Oldani, che aveva ancora il bauletto dei ferri. Quando ho vinto quella gara mi son detto: “Ehi, probabilmente so andare in moto”. Perché invece mio padre mi diceva: “Tu sei matto, è pericoloso, poi ci sono i grandi campioni, dove vai tu?”. Poi ho incontrato i campioni italiani juniores e li ho battuti tutti e subito, ho incontrato i campioni italiani senior e li ho battuti tutti e subito, i professionisti e li ho battuti tutti e subito».

«Ogni gara avevo paura, madonna ora non vinco, madonna ora non riesco a finirla...»

Che rapporto avevi con tuo padre? 
«Un buon rapporto, ma lui non voleva che corressi in moto, e infatti io ho avuto un sacco di difficoltà per avere il permesso. Lui diceva sempre che non avrebbe firmato la morte di suo figlio. Ma poi un suo amico, un notaio, lo ha convinto. Solo che il notaio aveva capito che volessi correre in bici, non in moto. Si vede che era destino… Comunque adesso, pensandoci, mio padre aveva ragione. Ai miei tempi si moriva ogni domenica. D’altronde se volevi correre in moto era cosi. Diversamente non si poteva»

Che famiglia era la tua?
«Mio padre aveva una falegnameria, vendeva legnami e cose così, ha avuto anche un’azienda di trasporti perché la falegnameria in tempo di guerra venne bruciata, è stato anche sindaco di un paese»

 

Tute appese, trofei, foto, auto: il garage di Giacomo Agostini (Photo by Gabriele Micalizzi)
Tute appese, trofei, foto, auto: il garage di Giacomo Agostini (Photo by Gabriele Micalizzi)

 

Lui non andava in moto?
«Aveva una macchina e una moto. Quando pioveva prendeva la macchina e io gli rubavo la moto, quando invece era una bella giornata e andava in moto io gli rubavo la macchina, quindi gliene combinavo di tutti i colori. E avevo solo otto anni».

Qual è il primo ricordo legato alle moto?
«Ah quando gli ho rubato il Galletto. Vado in piazza, vedo gli amici, ma non penso che non tocco per terra, cerco un appoggio col piede e vado giù… Una figura che ti puoi immaginare».

C’è mai stato un momento nella tua carriera in cui hai avuto paura di non farcela?
«Be’ oddio, di non farcela tutte le gare, avevo sempre paura, madonna ora non vinco, madonna ora non riesco a finire la corsa, mi si rompe il motore, scivolo, quello lì va più forte. La preoccupazione di non vincere c’è sempre stata in ogni gara».

C’è una frase di Gian Paolo Montali, ex allenatore della nazionale italiana di pallavolo: «Io ho sempre vinto perché ho sempre avuto paura di perdere». Ti riconosci in questa frase?
«Un po' sì, ma non la chiamerei paura, ma preoccupazione di non confermare le aspettative. Diciamo che la voglia di vincere mi faceva stare attento».

Ma come si fa a mantenere alte la fame e la determinazione?
«È l’amore, l’amore che tu hai per il tuo sport che fa la differenza. Correre in moto era la cosa che desideravo più di tutte, quindi non c’era paragone tra i sacrifici che dovevo fare per vincere e la gioia che provavo vincendo. La gioia era immensamente maggiore. Pensa che io, mentre tutti i miei amici partivano per la vacanza, un’estate sono andato da solo all’Isola di Man in macchina per imparare ancora meglio il circuito del TT. Lì ho affittato una moto e tutti i giorni per quindici giorni mi alzavo al mattino, guidavo, mi fermavo a mangiare, il pomeriggio giravo ancora e poi andavo a letto. Lì pioveva, la sera c’era la nebbia. Mi veniva una tristezza, un magone…».

Quando chiudi gli occhi ti capita di rivivere determinati momenti, di risentire il boato?
«Sì, ogni tanto sì. Penso spesso a quando nel 66, anno del mio primo titolo, vinsi a Monza davanti a 130mila persone, con la gente che mi portava in braccio e io ero livido livido, perché pensavano di farmi delle carezze invece mi davano certe manate sulle spalle… Penso spesso proprio al Tourist Trophy, quando ho lottato con Mike Hailwood nel 67. Sai il Tourist Trophy è una gara di 360 km, contro i 120 km di oggi che fanno le Motogp, in mezzo a case, muri, piante. Un giro erano 60 km, tu immagina quanto serviva per impararlo, un giro di 60 km. Il TT era una gara durissima, toglievi i guanti e ti uscivano i pezzi di carne dalla mani, il sangue, era bestiale».

 

Agostini con Phil Read con tanto di basettoni e occhialoni e Jarno Saarinen. 1971, Imola.
Agostini con Phil Read con tanto di basettoni e occhialoni e Jarno Saarinen. 1971, Imola.

 

Quella gara l’hai persa…
«Al TT battere Mike Hailwood era quasi impossibile, lui vinceva 50cc, 125, 250, 350 e 500. Quell’anno lui ha la Honda e io la MV Agusta, pronto e via, parto e prendo subito la testa. Pensa che su un giro di 60 km ci scambiavamo un secondo o due. L’ultimo giro ero in testa con 8 secondi e sognavo già la vittoria, ma si è rotta la catena. Quando sono arrivato al traguardo, lui mi è venuto incontro, mi ha abbracciato e mi ha detto: “You are the winner”. Mi ha pure fatto salire sul podio. Avevamo le tute nere con le spalle bianche perché tutti e due sfioravamo i muretti bianchi delle case a 250 kmh».

Ogni anno, in quegli anni, al TT morivano 3,4 piloti.
«Però se volevi vincere il campionato del mondo ci dovevi correre, non avevi molta scelta. Ho detto basta nel 73, quando è morto Parlotti, perché la sera prima mi aveva chiesto di portarlo a fare un giro per fargli conoscere meglio il circuito. Poi la mattina successiva lui correva in 125, prime di me, ebbe l’incidente e io chiedevo come stesse e tutti mi rispondevano: “We don’t know”, invece era già morto. E in qualche modo, col fatto che lo avevo portato in pista la sera prima, il suo incidente mi ha colpito di più. Quella sera ci dicevamo: “Vedrai che domani tu vinci la 125 e io la senior”».

 

Giacomo Agostini fu uno dei primi a usare le tute colorate (Photo by Gabriele Micalizzi)
Giacomo Agostini fu uno dei primi a usare le tute colorate (Photo by Gabriele Micalizzi)

 

Tu sei l’unico italiano ad aver vinto la duecento miglia di Daytona. Quella volta Kenny Roberts disse: «Non posso credere che Giacomo Agostini sia un essere umano».
«Quell’anno dovevo dimostrare che riuscivo a vincere anche se non guidavo la MV e per quella gara mi ero preparato abbastanza ma non a sufficienza perché non avevo pensato al caldo che c’era. Quando sono arrivato la General Motors mi ha dato una macchina, una Chevrolet bianca con su scritto: “Agostini 13 volte campione del mondo”. Kenny Roberts quando l’ha vista ha rilasciato un’intervista dicendo che il vero campione del mondo era lui perché “L’America era il mondo”. In prova ero quinto, ma pronti via, alla partenza, dopo il primo giro ero già primo. Alla fine della gara non ce la facevo più, ero disidratato, mi stavo quasi fermando, poi ho pensato a Kenny Roberts, agli amici che erano venuti dall’Italia, dall’Olanda, dal Belgio, dall’Inghilterra, è stata l’unica volta che Daytona si è riempita per le due ruote, l’unica volta. E quindi mi sono detto: “Son venuti tutti a vedermi e io adesso mi fermo perché non ce la faccio più fisicamente?”. E lì probabilmente è arrivata quella cattiveria, quell’orgoglio, ho superato questo attimo e son arrivato fino in fondo. Ero così stremato che andavo a cercare il sudore sulle labbra e lo leccavo per bere qualcosa. Alla fine non stavo più in piedi, mi hanno dovuto fare una flebo. Dopo, mentre stavo andando sul podio, ho incontrato Kenny Roberts e gli ho detto: “Kenny I’m sorry, forse adesso hai capito chi è il campione del mondo”. È stata una cosa incredibile, poi sono salito sul podio con una figa della madonna lì».

Hai sempre avuto fama di playboy. Quante donne hai avuto?
«Eeh il conto non l’ho mai fatto. Tante, ma mi sapevo regolare.».

 

Ritratto di Giacomo Agostini, da sempre legato a Dainese (Photo by Gabriele Micalizzi)
Ritratto di Giacomo Agostini, da sempre legato a Dainese (Photo by Gabriele Micalizzi)

 

Tu hai due figli giusto?
«Sì. 28 e 23 anni. Ti racconto questa: non sapevo come chiamare la mia prima figlia. Nico Cereghini mi disse: “Con tutto quello che hai vinto, chiamala Vittoria”. E così ho fatto. Quando stava arrivando il secondo ho chiesto sempre consiglio a Nico, e lui, scherzando, mi fa: “Adesso chiamalo Presuntuoso”. Be’ l’ho chiamato come me, alla fine gli ho dato retta lo stesso!».

Tu nel 68 hai vinto tutte le gare e hai fatto tutti i giri veloci, nel 69 tutte le gare e tutti i giri veloci, nel 70 tutte le gare e tutti i giri veloci, per tre anni di fila. Incredibile. La prima volta che hai perso nel 71, cosa hai pensato?
«A me perdere costava molto, perché bastava che arrivassi secondo e dicevano: “Agostini è finito”. Quindi mi toccavano l’orgoglio, capito? Ora quella cattiveria lì, quella fame, la rivedo in Marquez. Lui i suoi avversari non li vuole battere, li vuole umiliare».

E a un certo punto…
«Negli ultimi anni, troppi pre allarmi: grippavo, si rompeva il motore, allora mi sono detto: “Non sarà meglio fermarsi?”. Avevo perso troppi amici… Ma smettere è una cosa che mi e’ costata, perché io ho pianto per tre giorni».

Chi é che ti ha aiutato in quei tre giorni?
«Io. Solo io. Mi ripetevo: “Cosa voglio di più? Cosa voglio di più? È stata dura eh. È stata durissima. Durissima perché lasci il mondo che ami, lasci la cosa che hai voluto di più nella tua vita, che sono le corse, e sai che non ci sarà più tutto questo grande amore, non ci sara’ più. Tu potrai fare quel che vuoi, potrai diventare Agnelli, Ferrari, il presidente degli Stati Uniti però non proverai mai più quelle stesse gioie».

Cosa ti ricordi del periodo 68? Riuscivi a viverlo quel vento di protesta o eri troppo concentrato sul lato sportivo?
«Mi interessavo poco di tutto. Pensavo solo alle moto, io ero concentrato lì e forse è anche per questo che io son riuscito a ottenere così tanto. Certo, avevo le donne, facevo i film, ma solo nei periodi in cui ero fermo. Noi avevamo 4 mesi di stop, non è come adesso che tranne due settimane si corre sempre».

Leggo un giornale dell’epoca: «Agostini era solito trascorrere i giorni precedenti alla gara in totale astinenza da rapporti sessuali e libagioni alcoliche». Quindi niente sesso e niente alcool. Sempre?
«Sì, anche se una volta ho ceduto e ho vinto lo stesso. Nonostante questo, non mi sono detto: “Vedi che non importa?!”. Ho detto: “No! Ho sbagliato”».

«Smettere è una cosa che mi è costata, ho pianto per tre giorni»

Credi in Dio?
«Non posso dire di no. Tante volte prima della partenza facevo il segno della croce o dicevo: “Dio proteggimi, aiutami”. Però poi alla fine non sono tanto fedele, perché poi alla fine non credo che ci sia un’altra vita, non sono uno di quelli che dice: “Ma si, sono felice di morire perché so che di là ci sono altre vite, magari anche più belle”».

Preghi?
«Ogni tanto, non sempre. Prima, quando ero più giovane, spesso. Ma sono contro il fatto che ai preti sia proibito avere una donna, perché è la natura, è dio che ti ha dato questo. È l’istinto».

 

Illustrazioni, foto: momenti di una carriera incredibile tra Yamaha e MV Agusta (Photo by Gabriele Micalizzi)
Illustrazioni, foto: momenti di una carriera incredibile tra Yamaha e MV Agusta (Photo by Gabriele Micalizzi)

 

Quando è stata l’ultima volta che hai fatto l’amore?
«Non te lo dico. È un segreto».

Mi dici il nome di un’attrice di cui non è mai stato rivelato un flirt con te?
«Rinuncio. Sono segreti che mi porterò nella tomba».

L’ultima volta che hai pianto?
«Ho pianto per un amico che è mancato, qualche mese fa».

Cos’è che ti commuove?
«Mi commuovo tanto se vedo una mamma che sta piangendo perché ha perso un figlio. Credo che la perdita di un figlio non sia paragonabile a nessun’altra cosa».

Se pensi alle tue gare qual è l’odore che più ti viene in mente?
«L’odore dell’olio, poi all’inizio era quello dell’olio di ricino, mamma mia, era un profumo ragazzi. Cioè ti dava una carica l’odore dell’olio di ricino e questi motori che scaldavano l’olio e poi lo mettevano dentro».

 

Il circuito stradale di Imatra, Finlandia (Photo by Gabriele Micalizzi)
Il circuito stradale di Imatra, Finlandia (Photo by Gabriele Micalizzi)

 

Prima di addormentarti a cosa pensi?
«Alle vittorie, alle gioie, alle donne che mi applaudivano e che poi venivano con me sul podio e mi davano i baci, sai. Ogni tanto sai, hai dei momenti che sei giù, c’è qualcuno che beve per dimenticare, io invece penso alle cose belle che ho avuto nella vita. E che ho ancora. Pensa che una volta avevo un invito a Roma per Palazzo Chigi, dal presidente del Consiglio, mi avevano avvisato pochi giorni prima. Ma io avevo già una cena fissata da tempo con i miei amici, dovevo andare a mangiare le ossa di maiale in Val Camonica, e ho preferito questa alla cena di Roma».

Qual è il senso della vita per Giacomo Agostini?
«Essere innamorati».

Come vorresti morire?
«Addormentandomi. Un po’ di tempo fa ho fatto un’operazione all’ernia, ho voluto l’anestesia totale e quando me l’hanno data è stata talmente bello che trenta secondi prima di addormentarmi mi son detto: “Io vorrei morire cosi’”».

E sulla lapide cosa ci scriviamo? Giacomo Agostini virgola…
«Sei stato grande».

 

 

Finita l’intervista, ci concentriamo sulle foto. In sala, al tavolo, la moglie spagnola risponde alle mail davanti al pc. Agostini schizza da una parte all’altra della casa, io fatico a stargli dietro. Gli chiedo: Giacomo, io ho 38 anni, non ho mai corso in moto, non ho mai vinto un Mondiale, eppure sono pieno di acciacchi, tu hai rischiato la morte più volte, hai vinto tutto, adesso hai 76 anni, come stai? «Ahahah no, fortunatamente non ho nulla. Si, un po’ di mal di schiena ma non è dovuto alla mia carriera, mi viene soprattutto quando sto molto fermo. L’anno scorso quando ho avuto due, tre mesi di dolore e dovevo andare a fare una manifestazione in moto, ho detto: “Ma dove vai?”. Salito in moto invece, stavo da Dio, non perché sono io, ma perché è la posizione. Io andrei sempre in moto». A proposito, quando è stata l’ultima volta che hai impennato? Ci pensa, Agostini, come se dovesse recuperare un ricordo chissà di quanto tempo lontano. Poi si illumina: «Settimana scorsa, quando mi hanno consegnato la Yamaha».